Sono sicura che il primo impatto con una nuova città dipende dalla quantità di fuso orario in corpo e dalla sua gestione. Ricordo 12 ore sveglia nel viaggio verso Tokyo e un arrivo delirante stile Angelina Jolie in ragazze interrotte.
Prima di partire per New York mi sono detta: “stavolta non mi fregano”. Così ho ingoiato doppia dose di melatonina e passiflora che, sebbene non mi abbiano messo fuori gioco del tutto, mi hanno dato una bella accoppata di 3-4 ore.
Il primo dei tanti regali di New York è quello di farvi sentire estranei solo per i primi dieci minuti, dopodiché vi sentirete a casa. Mi sono detta che questo veloce adattamento è dovuto al fatto che siamo abituati a vedere La Grande Mela come location di film e serie tv, e questo fa si che ci si ambienti in un istante.
Arrivati in hotel, sulla 7th avenue a due passi da Times Square, ci siamo buttati a letto senza cena e senza indugi. Il mattino seguente sveglia alle sei e via. Qui la città non si ferma mai, tutto è acceso, la gente è per strada come fossero le dieci di mattina. Mi spazzolo via la mia prima colazione americana: caffè nero, pan cakes con sciroppo d’acero e burro. Li ho mangiati quasi tutte le mattine in locali diversi e la variante che fa la differenza è la qualità del burro che vi serviranno a parte: più è salato maggiore sarà il contrasto con il dolce dello sciroppo.
Con in mano l’immancabile lonelyplanet abbiamo iniziamo la nostra maratona settimanale. Vi anticipo che in 6 giorni ho percorso 80 km a piedi, roba da matti furiosi, ma mi sembrava il minimo che potessi fare se volevo continuare con pancakes e compagnia bella per una settimana. Solo il primo giorno ho camminato da Central Park al quartiere finanziario di Wall Street e non so come possa essere ancora viva per scriverlo.
Il memoriale dell’11 settembre è uno schiaffo amaro che mi ha turbato più di quanto potessi immaginare. Ed è la sua concezione impeccabile a perpetrare il dolore, ad avermi turbato e fatto sentire impotente. Il memoriale si presenta come una vasca vuota sulle cui pareti scorre dell’acqua che viene inghiottita a sua volta da una cavità posta ancora più in basso. Il fondale è impossibile da vedere. Nei pressi del memoriale mi sono consolata rifacendomi la vista con l’Oculus di Calatrava. Per quanto questo architetto sia disgraziato dall’essere sempre contestato qualsiasi cosa faccia, io trovo che abbia progettato un’opera che taglia la staticità delle strutture di New York.
Non distante sono arrivata fino Wall Street, ma non c’è granchè da vedere. Vi consiglio di andarci giusto per respirare un po’ di profumo di soldi. Il famoso toro è impossibile da fotografare, è pieno di turisti che ci fanno salire sopra i loro bambini e io non ci tenevo particolarmente ad avere una foto di sconosciuti deliranti con una bestia cornuta.
Nei giorni seguenti non ho mancato una visita a Chinatown e Little Italy. Sono molto vicine al quartiere finanziaro ma si presentano più come piccole cittadine con edifici bassi. Mentre la prima rispecchia i canoni di una città cinese, con negozi non-stop, parrucchieri, massaggiatori e tanti sgabuzzini che vendono di tutto, la seconda non esiste più. Little Italy si snoda intorno a una sola via, Malberry Street, che a parte i festoni colorati con la bandiera italiana e i nomi italiani di ristoranti non ha proprio niente del nostro paese. I ristoranti servono tipici piatti italiani che ho avuto l’amor proprio di non assaggiare ma i camerieri sono tutti ispanici e non ho udito una sola parola italiana in tutta la via. Ve la sconsiglio vivamente.
Guardare il tramonto su Manhattan dal Brooklyn Bridge Park invece è stato commovente, specie perché quella sera il colore del cielo si spostava dal rosa all’arancione.
Non mangio mai cibo italiano all’estero, ma se vi dicessi che ho mangiato la pizza più buona (e cara) della mia vita a Brooklyn ci credereste? Un po’ di fila la dovrete fare, io me la sono cavata con mezz’ora, ma la pizza di Patsy Grimaldi da Juliana’s è unica.
Andando per musei mi sono fatta la mia personale classifica dei tre che ho visto. Al primo posto il Moma, per chi ama l’arte moderna è una vera manna. Il museo è cosi ben disposto che non si sentono i visitatori. La collezione è molto ricca e e all’appello rispondono anche i nostri italiani Burri, Medardo Rosso, Guttuso e Severini. Secondo posto al recente Whitney Museum firmato Renzo Piano. La collezione moderna non è paragonabile a quella del Moma ma vi troverete molti fotografi famosi come Avedon e avanguardie divertenti. L’ultimo posto va al Guggheneim. Merita di essere visto per la singolare struttura a spirale, purtroppo la sua collezione non è vasta ed è ospitata in una sala laterale mentre nelle rampe circolari sono esposte le mostre temporanee.
Deludente la High Line che fa invece impazzire molti, a giudicare dall’affluenza. Se come me siete rimasti col disappunto dopo averci passeggiato sopra andate a consolarvi al vicino Chelsea market. Qui l’offerta culinaria vi farà schizzare i trigliceridi al massimo.
Ma il tesoro più antico di Manhattan (solo 240 anni) me lo sono andata a scovare una sera al limite nord di Harlem, nel quartiere di Washington Heights, dove sorge una bellissima magione con facciata di colonne, la Morris-Jumel Mansion, all’epoca quartier generale di George Washington.
Detto questo non ci sono parole precise per spiegare cosa è stata per me New York. Perché la realtà è che per ciascuno di noi questa città è una fonte di sensazioni particolari e personali.